Molti non lo ricordano più, perché oggi, quando un bambino ha bisogno di cure ospedaliere, ci si rivolge al Pronto soccorso pediatrico del S. Chiara, con ricovero in una “Area pediatrica “ integrata nell’Ospedale di Trento. Ma nei decenni scorsi, quando un bambino stava male, il genitore doveva andare in piazza Venezia e affrontare una stretta salita di 300 metri; quando un neonato stava male presso la sala parto o il Nido dell’ Ospedale S. Chiara, il pediatra doveva andare di corsa dall’ altra parte della città e non sempre arrivava in tempo; quando una neo-mamma aveva suo figlio ricoverato, poteva vederlo ed allattarlo solo dopo diversi giorni. Sono stati centinaia di migliaia i bambini trentini passati da via della Collina, sono stati circa 10.000 i neonati ricoverati nel Centro Immaturi negli ultimi 25 anni di vita dell’Ospedalino. L’era dell’ Ospedalino è durata poco più di settant’anni, dal 7 dicembre 1920 fino al 15 giugno 1991. Per più di cinquant’anni è stato autonomo; nel 1972, assieme all’Ospedale S. Chiara e Ospedale ortopedico Villa Igea, è stato assorbito nei cosiddetti “Istituti Ospedalieri di Trento” . La storia dell’Ospedalino non sarebbe disponibile se don Tullio Endrizzi non l ‘avesse raccolta e, dopo la sua morte, non fosse stata conservata dal sottoscritto.
Le mie esperienze personali, come pediatra e neonatologo, sono fortemente legate agli ultimi anni della sua attività; ma l’Ospedalino era sempre citato dai miei genitori come il luogo dove per molti mesi un mio fratello era stato curato per un’osteomielite ed era morto nel 1931, a un anno di vita, tra molte sofferenze. Mia mamma ci raccontava spesso dei suoi pianti sulle scale che portavano all’Ospedalino: per noi era un luogo dove morivano tanti bambini, dove tante madri piangevano di fronte a tanti dolori. Erano tempi in cui nella nostra provincia, nel primo anno di vita, morivano più di 100 bambini ogni 1000 nati.
Nel 1961 quando ci andai come assistente, ne morivano tre volte meno, 30 su 1000. Era un livello molto alto rispetto a tutti gli altri stati europei.
Nel 1991 dopo altri trent’anni, ne morivano venti volte meno, meno di 5 bambini su 1000 nati.
Numeri su cui tutti dovrebbero soffermarsi, numeri che devono farci riflettere. I tassi di mortalità infantile sono i più affidabili indicatori del livello di civiltà di un popolo (e nel Trentino siamo arrivati a raggiungere ora i più alti livelli mondiali di sopravvivenza).
Il nostro lavoro di pediatri è stato molto impegnativo, per garantire i massimi diritti alla vita e alla salute ai più deboli cittadini trentini; ciononostante i colleghi del S. Chiara, con i quali avevamo pochissimi rapporti, ci hanno sempre considerati “parenti poveri” e questo anche dopo la fusione del 1972. Negli anni Sessanta, mentre l’ Ospedale S. Chiara si apprestava al trasferimento da corso 3 Novembre all’attuale sede, come era la vita all’ Ospedalino?
L’ amministrazione autonoma
Quando l’Ospedalino fu fondato nel lontano 1920 non c’erano certo problemi di traffico e nemmeno c’era la nostra cultura dell’efficienza nell’emergenza. Solo negli ami Sessanta si è cominciato a mettere in discussione, oltre alle difficoltà di ubicazione, le difficoltà di gestione dell’ Ospedalino, una struttura che faticava ad essere autonoma. Sono state queste le ragioni più forti per cui l’Ospedalino verrà aggregato al S. Chiara nel 1972 e nel 1991 verrà del tutto trasferito al S. Chiara. Ricordo che la presidente Giuseppina Bassetti ci disse un giorno: se riusciste ad aumentare di un giorno i giorni medi di degenza (erano sui 20 giorni per bambino!) avremmo un bilancio in pareggio… Cultura d’ altri tempi.
L’ accesso non adeguato
L’ubicazione dell’ Ospedalino era decisamente sbagliata. Lo si raggiungeva per una stradina molto stretta e ripida, allargata negli anni Sessanta per poche decine di metri. Quando nevicava forte la strada poteva rimanere bloccata per parecchie ore! In ogni caso, quando vi erano emergenze, potevano verificarsi ritardi notevoli. Quando dalla sala parto del S. Chiara ci chiamavano per un neonato grave, si impiegavano non meno di 20-30 minuti per arrivare ad assisterlo. L’ultimo ostacolo per un’ambulanza era l’ ingresso al Pronto Soccorso, progettato solo per ambulanze basse. Quando arrivava l’ ambulanza alta l’incubatrice o la barella dovevano essere scaricate fuori dalla tettoia.Per anni si discusse sulla possibilità di costruire una funicolare o un ascensore dalla cava di pietre sottostante. Si discusse anche sulla possibilità di annettere la vicina villa Gerloni e di accedere da via della Saluga. Si invocò inutilmente un collegamento con un piccolo bus dalla città. La strada è rimasta uguale, il bus è stato istituito nel maggio 2006. In portineria si trovava l’infaticabile signora Mozzi, negli uffici, sempre sorridenti, le signore Raffaella e Marisa. Di notte c’era sempre “il Girardi”, portinaio e guardiano notturno.
I genitori, poco protagonisti
Negli anni Sessanta i genitori non potevano stare vicino al figlio ricoverato “per motivi igienici”: potevano vederlo, ma solo attraverso i vetri (!) e solo il giovedì e la domenica dalle 14 alle 16. Le infermiere tenevano i bambini in braccio e rassicuravano alla meglio i genitori. Chi aveva possibilità economiche oppure chi aveva una mutua che lo consentiva, ricoverava il figlio in un reparto al terzo piano denominato “Solventi” (con prima e seconda classe). Il Lattario era molto attivo e ben organizzato, gestito dalla indimenticabile puericultrice Paris. L’allattamento al seno non era molto favorito. Iniziava ad allattare solo il 60% delle madri (dati ONMI, 1960) e alle prime difficoltà si proponeva l’allattamento artificiale. C’erano regole fisse, tabelline molto dettagliate per cui i neonati dovevano mangiare ad ore fisse quantità fisse di latte. E questo perché molti, troppi lattanti erano ricoverati per distrofia e malassorbimento. In quegli anni la Pediatria imponeva delle regole per avere bambini più sani (anche se certe madri diventavano più nevrasteniche). Solo negli anni Settanta si è cominciato a parlare di umanizzazione dell’ospedale. Solo nel 1973 abbiamo aperto alle madri le porte del “Centro Immaturi” (con 4 posti letto per chi allattava) ed è iniziata l’attività della Banca del latte materno, una delle prime d’Italia. Solo nel 1982, tra i primi in Italia, siamo riusciti ad emanare una Legge provinciale che garantiva il diritto dei genitori ad essere sempre presenti in ospedale.
Le infermiere, eccezionali angeli custodi
Venivano chiamate “infermiere”, ma in realtà il personale femminile era quasi tutto senza titolo di studio; imparavano i loro compiti sul campo di battaglia, giorno dopo giorno. Tutte rigorosamente nubili: fino a metà degli anni Sessanta c’era un dormitorio ed era vietato rientrare dopo le 22. Fu uno shock quando verso il 1965 la prima infermiera rimase in servizio dopo il matrimonio. I turni erano di 12 ore al giorno con una sola infermiera per reparto di notte. E vi erano anche turni di 20-30 notti consecutive. Le cosiddette “infermiere” idratavano i bambini col contagocce ed anche con sondini gastrici o con ipodermoclisi (novità portata da Bologna dal prof. Nicolaj). Aghi, siringhe, sondini venivano bolliti più volte al giorno e con la pietra da arrotino si affilavano gli aghi spuntati per decine e decine di volte. I neonati gravi venivano assistiti da puericultrici che li rianimavano, facevano iniezioni, mettevano sondini gastrici. Non c’erano incubatrici da trasporto (le avremmo avute nei primi anni Settanta) e così il personale andava con ambulanza al S. Chiara o in ospedali periferici e metteva il neonato in una valigetta di cm 60X30 con un piccolo finestrino, un tubicino collegato alla bombola di ossigeno e una boule d’acqua calda. Molti neonati gravi ci arrivavano dalla periferia addirittura in taxi, in braccio al padre o altra persona..Nessuna meraviglia che morissero in Trentino 30-40 neonati ogni 1000 nati.
Le suore, don Tullio, le maestre: al servizio dei bambini
L’organizzazione di tutto l’Ospedalino era nelle mani di una decina di suore di Maria Bambina. Suor Vincenza Carli era la superiora, suor Marina il factotum della Farmacia, suor Faustina la perfetta caposala nel reparto Lattanti, suor Amabilia e suor Beniamina caposala in Chirurgia, suor Elena e poi suor Francesca al Preventorio tbc, l’indimenticabile suor Geltrude Poli all’Isolamento (entrata nel 1921 ha lavorato fino a 80 anni, fino al 1973). Angeli della notte erano suor Damiana e suor Amabile. Don Tullio Endrizzi, presente ogni giorno nelle corsie, era per i bambini sofferenti un eccezionale punto di riferimento: memorabili sì i suoi giochi e il suo sorriso, ma soprattutto le sue parole di consolazione. Tante le feste organizzate per ogni festività, per le prime comunioni, per la scuola. La scuola elementare era stata voluta dalla presidente Bassetti e riconosciuta come “scuola speciale per minorati fisici”. Erano presenti due maestre in due aule del Preventorio ed una maestra nelle corsie. E c’era anche un insegnante di scuola materna.
I medici, con scarse risorse
Alla fine degli anni Sessanta i medici erano una ventina, tra pediatri, chirurghi pediatri, neuropsichiatri, anestesisti, laboratoristi, radiologi. Le guardie notturne si prolungavano fino al pomeriggio del giorno seguente. Il lavoro (per 300-400 ricoverati al giorno) era intenso e non permetteva di avere incontri di aggiornamento o di promuovere iniziative o di partecipare alla vita delle società scientifiche nazionali. Le scarsissime risorse ci permettevano di fare solo l’assistenza in corsia, con grande dignità. Di quel tempo restano poche tracce dal punto di vista della ricerca pediatrica di tipo scientifico od epidemiologico. Non c’era una biblioteca medica; ricordo che in quegli anni trovai uno sponsor per arredarla e per avere alcune riviste di aggiornamento. Non si andava a convegni o congressi nazionali e non c’erano contatti con altri centri pediatrici. In quei tempi la Pediatria stava organizzandosi in rete, emergevano problemi di ricerca, formazione, attenzione ai problemi sociali; nel mondo stava nascendo la Neonatologia. L’ambiente, secondo me, non era molto favorevole ad un dialogo costruttivo all’interno ed anche all’esterno, col S. Chiara ed anche con altri ospedali. Certamente negli ultimi quarant’anni abbiamo assistito ad una vera rivoluzione nell’ aggiornamento dei medici.
Tanti interventi, forse troppi…
Negli anni Sessanta i problemi pediatrici erano affrontati con un alto tasso di interventi: si era arrivati a togliere le tonsille e/o l’appendice fino al 5% dei bambini, si prescrivevano molte scarpe “correttive” e cicli di ginnastica posturale. Tutti i traumi cranici dovevano essere ricoverati per almeno sette giorni, anche per 20 giorni se c’era anche la minima frattura. Ricordo che per ogni caso di trauma si prescriveva come antiemorragico una fiala di Botropase, un farmaco derivato dal veleno di un serpente brasiliano, il Botrops jararaca.Molti bambini con febbre ricevevano due – tre antibiotici; le tonsilliti si curavano con supposte di Bismocetina; si consumavano ettolitri di Betotal e milioni di unità di vitamina D (Ostelin). I neonati con disturbi respiratori ricevevano Sympatol, Micoren, Lobelina e persino gocce di cognac (erano utili, secondo ricerche pubblicate a quell’epoca in Francia). Nei frequenti gravi casi di gastroenterite erano “miracolose” le infusioni rapide di liquidi nel midollo osseo delle gambe (mieloclisi), una metodica salvavita introdotta dal prof. Nicolaj. Alla nascita i neonati sani (e le madri) rimanevano in ospedale per almeno sette giorni e il 10% era sottoposto a fototerapia per ittero. Diversi i morti per incompatibilità Rh, prima dell’ avvento delle gammaglobuline che hanno cancellato la malattia. Le radiografie erano numerose e così le trasfusioni di sangue. Diversi operatori sanitari erano disponibili a donare il loro sangue (non si sapeva nulla dei rischi per epatite o AIDS…); avevamo organizzato addirittura una discutibile, piccola banca del sangue! In caso di emergenze potevamo intervenire in pochi minuti senza attendere il sangue che ci arrivava dal S. Chiara solo dopo un’ora.
Poliomielite e tubercolosi, oggi del tutto dimenticate
Negli anni Sessanta il Centro per recupero dei poliomielitici ricoverava fino a 25-30 bambini, sottoposti ad interventi chirurgici e a rieducazione funzionale. Nel 1964 venne introdotto il vaccino antipolio (con qualche anno di ritardo in Italia): ricordo ancora l’ ultimo caso di poliomielite e la disperazione che si accompagnava alla diagnosi. Il Centro fu chiuso nel 1967. Il Sanatorio era stato chiuso nel dopoguerra, ma era ancora attivo il Preventorio (la Casa “verde”) con 40-50 degenti per adenopatia tubercolare. Il ricovero durava da uno a tre anni e veniva spesso “contrattato” con gli ispettori ministeriali (cosi come gli altri ricoveri erano “contrattati” con gli ispettori delle numerose mutue di allora). Certi bambini rimanevano ricoverati anche tre anni senza mai uscire dall’Ospedalino. Andavano regolarmente a scuola e ricevevano in Ospedale la prima Comunione e la Cresima. Erano molto frequenti i riscontri di bambini positivi alla tubercolina, anche se non ammalati. A molti neonati trentini venne praticato fino al 1974 il vaccino VDS con germi uccisi (vaccino diffondente Salvioli). Ma, negli anni Sessanta, si stava registrando dappertutto un repentino crollo nella diffusione del micobatterio tbc.
Tanti ammalati, tanti morti…
Il reparto “Lattanti e Divezzi” (questi ultimi in una camerata di 10 letti) era pieno di casi di gastroenterite, distrofia, bronchite,… I ricoveri per meningite arrivavano fino a 60 all’ anno; decine i casi drammatici di gravissime sepsi da meningococco. Nel reparto Isolamento (la Casa “bianca”) erano ricoverati in più stanze una decina di degenti. Erano numerosi i casi di epatite, di salmonellosi, di pertosse e malattie esantematiche. Molti i bambini operati o con traumi nel reparto di Chirurgia-Ortopedia, molti i casi di peritonite dovute ai purganti (dati ancora in abbondanza, secondo tradizione), molti i casi di incidenti domestici. Arrivavano bambini ustionati cosparsi a casa con farina gialla. Ricordo molti casi gravi di avvelenamento da farmaci e da pesticidi agricoli e qualche caso mortale di intossicazione da alcool. La mortalità era molto alta tra i neonati ricoverati (più del 20%) ed anche tra i bambini affetti da infezioni e tumori. Tutti i casi di leucemia erano ad esito infausto. Sono tuttora sconvolto a pensare a quel che succedeva al momento della morte di bambini residenti nelle vallate. I parenti, pensando alle molte imposte che avrebbero dovuto pagare per ogni comune che attraversava il trasporto funebre, ci scongiuravano di dimettere il bambino come se fosse vivo ( “dimesso in gravissime condizioni”, si scriveva sulla cartella clinica): centinaia di morticini furono così portati a casa subito dopo il decesso. C’era un angelo che si prendeva cura dei morti: suor Damiana era sempre presente, pronta ad assistere e sostenere i genitori, a vestire il bambino e portarlo nella camera mortuaria. Al cimitero di Trento i bambini morti sono tuttora sepolti in spazi speciali. Ricordo che contavo file di 50-60 tombe per anno. Per me era anche quello un “reparto” dell’Ospedalino. E alla fine degli anni Sessanta cominciai a contarli i bambini morti, a cercare di capire il perché delle loro morti, delle nostre sconfitte, a cercare di migliorare il mondo dei bambini, a difendere i loro diritti.
Ma questa è tutta un’altra storia…
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